martedì 25 agosto 2009

I NUOVI VIZI

“A differenza dei vizi capitali che segnalano una deviazione della personalità, i nuovi vizi ne segnalano il dissolvimento, che fra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I nuovi vizi, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive a cui l’individuo non può opporre un’efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale”. Così il filosofo Galimberti in un bellissimo saggio del 2003 (I vizi capitali e i nuovi vizi – edito da Feltrinelli) fotografa il cambiamento della nostra società sempre più pericolosamente proiettata in un pensiero collettivo unico e schiacciata da una trasformazione che svincola anche l’errore (il vizio) dalla responsabilità del singolo, per stemperarlo nella grande palude di un consumismo culturale all’interno del quale anche la libertà diventa evanescente, perché “non è più la scelta di una linea di azione che porta all’individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti”.

Ciò che sta accadendo nella nostra società parte evidentemente proprio da questa subdola trasformazione che spaccia per libertà tutto ciò che in realtà non è altro che la sua immagine inconsistente vagamente riflessa in quelle acque limacciose nelle quali stiamo inesorabilmente scivolando. E così siamo tutti traghettati verso un’assoluta illibertà proprio da quei “vizi” che vengono propagandati come emblema di modernità e di sottrazione ad una antica schiavitù. Il conformismo, la spudoratezza, la sessomania che pervadono la nostra società altro non sono, dunque, che il meccanismo ipocrita attraverso il quale noi finiamo per cedere volontariamente e senza alcuna forma di resistenza la nostra libertà quale essa sia, da quella di scegliere , a quella di proteggere la nostra interiorità, a quella di conservare integro il potenziale creativo della nostra stessa sessualità.
Sembra pleonastico sottolineare che l’ “educazione” ai “nuovi vizi” è stata facilmente ottenuta a colpi di Grande Fratello et similia e che anche le riforme della nostra scuola si sono efficacemente adoperate a “produrre” come modello vincente quello di una gioventù super impegnata, super attiva, dedita, insomma, ad ogni tipo di attività possibile tranne, ovviamente, che a quella di pensare.
Tra i “nuovi vizi” presi in rassegna da Galimberti, però, quello che meglio rappresenta la società attuale è il diniego, cioè una sorta di falsificazione della nostra conoscenza e della nostra coscienza. Il diniego (per Freud anticamera della pazzia in quanto scissione dell’Io) porta a non riconoscere i fatti nella loro pur accertata esistenza o a non riconoscerne la valenza negativa o, ancora, a non riconoscere a se stessi alcuna competenza nell’affrontarli. Da questo grande vizio, nasce l’indifferenza o, peggio, l’insensibilità verso un mondo di cui si ha ben chiara l’esistenza, ma che tuttavia appare lontano ed altro da sé. E la lontananza, ovviamente, non è di tipo fisico, bensì psicologico e si gioca sulle grandi distanze della diversità, oggi forse come non mai comodo confine tra le nostre e le altrui vite. Così anche le grandi tragedie, come le numerose guerre che tutt’oggi si combattono nel mondo, come le morti per fame che ancora falcidiano le popolazioni più sventurate della Terra, riescono a non diventare la vergognosa piaga di ciascuno di noi, ma al più un problema che qualcuno (ovviamente non noi) prima o poi dovrebbe decidersi a risolvere. Il dolore degli altri, insomma, ci appare virtuale, sfocato, trascurabile quasi. Ci commuove, ma per commuoverci, forse, per un attimo deve essere avvicinato all’immagine dei nostri figli, dei nostri cari, altrimenti rimane fuori, fuori della nostra vita, fuori di noi.
In questo contesto nascono e vivono i deficienti che inventano i “Rimbalza il clandestino”, i delinquenti che aggrediscono gay e barboni, i ragazzi che muoiono nei rave party nei quali sono finiti forse per l’indifferenza di sé che non ha dato loro la capacità di riconoscere nemmeno il pericolo.
E noi? Incrociamo le braccia, aspettiamo. In fondo quello delle escort è un problemuccio privato, quello delle ronde un’allegra bravata, quello della droga una questione personale, quello dei clandestini un fastidioso dilemma, quello della mafia una nostalgica pagina letteraria e quello della libertà che va scemando una romantica esagerazione. E poi, comunque, non tocca mica a noi lottare. (di Anna R. G. Rivelli)

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