martedì 29 settembre 2009

Napolitano in Basilicata stringerà la mano delle massime autorità: molti sono indagati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari

Ill.mo Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano,
a pochi giorni dall'annunciata visita in Basilicata mi lasci esprimere, anche a nome di tanti lucani probi, il ringraziamento per la decisione di programmare questo viaggio istituzionale in una Regione d'Italia che ha sempre guardato con fiducia e apprezzamento all'impegno ed all'abnegazione con cui Ella svolge l'alto compito che la Costituzione ed il Parlamento le affidano.
Forse, ci piace pensare che questa decisione sia stata determinata anche dalle numerose istanze che negli ultimi due anni sono state indirizzate al Suo Alto Ufficio da singoli cittadini, da associazioni di categoria e, nel novembre 2008, da una nutrita assemblea di lucani tenutasi a Matera: circa seicento persone.
Molti si erano sfiduciati, non riconoscendo nelle brevi e apparentemente evasive risposte quell'impegno doveroso che si aspettavano dal massimo garante delle istituzioni repubblicane. Si sbagliavano, evidentemente, e fra qualche giorno ne avranno la conferma certa.
Avevano sottoposto, alla S.S. Ill.a, il grave disagio di chi assiste al progressivo sfaldarsi dell'autorevolezza del sistema giudiziario i cui vertici erano (e sono tuttora) coinvolti in procedimenti penali sottesi a gravissime ipotesi di reato: associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, per una pluralità di situazioni, fatti e comportamenti che coinvolgevano il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Potenza (Dr. Vincenzo Tufano), il Procuratore Capo presso il Tribunale di Matera (Dr. Giuseppe Chieco), il Sindaco di Matera (Avv. Emilio Nicola Buccico) e numerosi altri tra magistrati, componenti delle forze dell'ordine, parlamentari, politici regionali e amministratori locali.
Questo stato dei fatti, sul piano delle considerazioni di opportunità che, come si sa, sono poste a tutela degli indagati e non già ad anticipazione di condanna vigendo l'insuperabile presunzione di non colpevolezza, avrebbe postulato un allontanamento dai luoghi e dalle funzioni nell'esplicazione delle quali gli ipotizzati crimini sarebbero stati commessi. Per molto meno e con lodevole solerzia, il CSM, su sollecitazioni di varia fonte, aveva trasferito Luigi De Magistris e, poco dopo, Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e Luigi Apicella (tutti sono risultati assolutamente estranei a condotte criminose ed hanno emesso provvedimenti confermati in tutti i gradi di giudizio). Fatti, nomi e circostanze che Sua Signoria Ill.ma ha ben conosciuto e seguito. Arrivando a chiedere gli atti quando ancora erano in corso le operazioni d'indagine e suscitando polemiche strumentali di chi pretendeva di far passare per indebita ingerenza quella che era la grande sensibilità istituzionale che da sempre contraddistingue il Suo operato. Se si aggiunge, cosa che al fine intuito giurisdizionale della Sua Signoria Illustrissima non sfugge, che la comunanza degli interessi in sede giudiziaria rendeva impossibile la credibilità del doveroso ed indispensabile ruolo di vigilanza del Procuratore Generale (Tufano) sul Procuratore Capo (Chieco); ecco appalesarsi in tutta la sua ineluttabilità l'urgenza del ripristino delle compatibilità funzionali, allontanando tanto il Chieco che il Tufano. Ebbene, Signor Presidente, il questo viaggio lucano, finalmente, avrà ben modo di esplicitare la Sua posizione e rimuovere il vulnus che pesa sulla credibilità dell'istituzione giudiziaria in Basilicata. La Sua sola presenza, verosimilmente accompagnata da quella degli indagati per gravissimi reati contro la pubblica amministrazione, tra cui l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, potrà apparire come una vicinanza addirittura condizionante dei gradi di giudizio imminenti. Come potrà evitare di stringere la mano di quegli indagati che rivestono ruoli istituzionali? Quando i flash dei media la inquadreranno con Emilio Nicola Buccico, Giuseppe Chieco, Vincenzo Tufano, Gaetano Bonomi (Sost. Proc. Gen. a Potenza), Filippo Bubbico (Sen. Pd), Felicia Genovese (magistrato), Giuseppe Labriola (consigliere provinciale), Nicolino Lopatriello (sindaco di Policoro), Vito De Filippo (Governatore della Basilicata, nel suo caso l'associazione era ipotizzata come finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato), non correrà il rischio di ingenerare pettegolezzi, dicerie e maldicenze? Chi ben conosce l'alta sensibilità della S.S.Ill.ma, non dubita che queste considerazioni siano state già valutate ben prima di pianificare questo viaggio. E quindi, c'è da attendersi che interventi chiari ed espliciti anticipino e vanifichino ogni impropria strumentalizzazione da parte di quanti volessero usarla come scudo alle proprie responsabilità. Anche per questo, sin d'ora, La ringrazio personalmente anche a nome dei tanti che indubitabilmente condividono queste brevi osservazioni.
Deferenti Ossequi
Nicola Piccenna

domenica 27 settembre 2009

Nuzzi, Verasani, Apicella, De Magistris: si è trattato di EPURAZIONE?

Adesso lo possiamo dire forte: Il trasferimento di sede, la modifica delle funzioni, la sospensione dallo stipendio, provvedimenti che in diversa misura il CSM ha comminato ai magistrati Apicella, Nuzzi, Verasani e De Magistris, non hanno alcun fondamento giuridico. Che la Suprema Corte di Cassazione li abbia poi confermati (nel caso del Dr. De Magistris si limitò a lavarsi pilatescamente le mani) è l'ulteriore conferma del degrado istituzionale in cui versa la giustizia in Italia. Per essere chiari sino in fondo, il palese abuso compiuto ai danni di questi magistrati si poteva raccontare (ed alcuni l'hanno fatto) da un bel pezzo. Dal giorno in cui i magistrati di Catanzaro ebbero a controsequestrare quanto era stato sequestrato loro dai magistrati di Salerno. Ma oggi si può dire di più e meglio. Perché l'ha detto un magistrato. Perché è scritto in una sentenza. Perché non si può difendere l'istituzione "Giustizia" senza che anche i magistrati facciano la loro parte. (Filippo de Lubac)


Il 9 settembre 2009, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Perugia ha archiviato il procedimento penale nei confronti dei colleghi Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e Luigi De Magistris, relativo alla vicenda delle indagini della Procura di Salerno bloccate da provvedimenti disciplinari adottati dal Consiglio Superiore della Magistratura – con tempi e modi che a noi e a tanti appaiono tecnicamente illegittimi – nei confronti dei magistrati inquirenti.



Abbiamo pubblicato – a questo link – il testo del provvedimento di archiviazione.
Esso è particolarmente interessante, perché offre l’ennesima riprova dell’infondatezza degli argomenti addotti dal C.S.M. – e poi anche dalla Corte di Cassazione (la sentenza della Corte è a questo link) – contro i magistrati della Procura di Salerno.



Il trasferimento di quei colleghi e addirittura la sospensione del dr Apicella dalle funzioni e dallo stipendio sono stati disposti con provvedimenti dei quali in altri scritti abbiamo illustrato i profili di infondatezza e di illegittimità.
In quei provvedimenti e nella campagna di stampa che, orchestrata da chi vi aveva interesse, li ha propagandati all’opinione pubblica, si affermano come vere, fra le altre, tre circostanze che sono sempre apparse con tutta evidenza non vere e che il G.I.P. di Perugia ancora una volta si incarica di smentire.
In particolare:


1. non è vero che le perquisizioni disposte dai magistrati di Salerno siano state eseguite in maniera offensiva e/o lesiva della dignità dei magistrati perquisiti (come sostenuto con urla e strepiti in televisione e in ogni dove), essendo vero l’esatto contrario e, cioè, che, come scrive il G.I.P. di Perugia, è «stato compiuto ogni sforzo per rendere meno traumatico possibile lo svolgimento dell’incombente in un contesto di comprensibile disagio»;


2. non è vero che i magistrati di Catanzaro avevano offerto agli inquirenti di Salerno le copie degli atti che essi per molti mesi avevano richiesto invano, essendo vero l’esatto contrario, sicché il sequestro era, per questo e per altri motivi, non solo legittimo, ma addirittura necessario;


3. non è vero che il sequestro disposto dai colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi era un sequestro “preventivo”, come sostenuto contro l’evidenza dal C.S.M. e dalla Cassazione, essendo esso, invece, un sequestro “probatorio”.


I provvedimenti del C.S.M. nei confronti dei magistrati di Salerno hanno bloccato le loro indagini e reso vani, nei fatti, i provvedimenti da loro legittimamente adottati e confermati nelle sedi giudiziarie competenti.


Al di là di qualunque opinione che ciascuno può avere sulle ragioni per le quali i Consiglieri del C.S.M. hanno fatto questo, in uno stato democratico la legittimità dei provvedimenti si misura valutando la fondatezza o meno delle motivazioni esposte per giustificarli.


Le motivazioni addotte dal C.S.M. prima e dalla Corte di Cassazione poi nel caso dei colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi appaiono sotto diversi profili palesemente infondate.


Cosa tutto questo significhi per la magistratura e per il Paese ognuno può agevolmente comprenderlo.


A noi, in questo tempo nel quale gli abusi di potere e del potere sembrano diventati parte della Costituzione materiale del Paese, resta l’amarezza più profonda per avere dovuto assistere a una delle più clamorose interferenze del potere – interno ed esterno alla magistratura – sull’indipendenza dei magistrati e sul loro lavoro, non solo senza che questo suscitasse una virile e clamorosa indignazione della magistratura associata e delle istituzioni preposte ai controlli di legalità, ma addirittura con l’avallo esplicito di tutti costoro.


L’epurazione dei colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi con una procedura disciplinare nella quale i loro diritti di difesa sono stati compressi oltre ogni pensabilità costituisce, a nostro modo di vedere, un vulnusgravissimo e definitivo su qualunque speranza di indipendenza dei magistrati.


Oltre che, ovviamente, una grave ingiustizia nei confronti dei colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi, rei di avere onorato con coraggio e coerenza i loro doveri professionali. (tratto da www.toghe.blogspot.com: "Dal G.I.P. di Perugia l’ennesima smentita delle tesi del C.S.M. e della Cassazione contro i magistrati della Procura di Salerno")

mercoledì 23 settembre 2009

Non manca la libertà di stampa, mancano gli uomini liberi (giornalisti e non)

E' indubitabile che da destra e da manca si tenti di intimidire i giornalisti e gli editori con querele, risarcimenti miliardari e minacce di ogni genere; compresi i volgari ricatti. Persino fra colleghi giornalisti, fioccano i messaggi propri del "terrorismo mediatico" ed arrivano quasi sempre a segno.
Infatti, difficile ci appare comprendere di cosa si lamentino tanti giornalisti quando piangono sull'assenza della libertà di stampa. Piuttosto dovrebbero parlare della codardia (forse è un po' forte, ma rende l'idea) o del ricatto dei viveri: cui troppi soggiacciono. Come se si potesse combattere una guerra (quella dell'informazione, beninteso) pretendendo di non subire nemmeno una scalfittura.
Chiedetelo a Vulpio (al secolo Carlo, inviato del Corriere della Sera), che ha pubblicato quello che voleva e ne sta ancora pagando le conseguenze. Lo rifaresti? Ebbi a chiedergli qualche giorno dopo la "messa in castigo". Rispose subito: "certamente". Lo rifaresti? Gli ho chiesto qualche ora fa. "Certissimamente". La libertà di stampa è un concetto astruso, un sofisma, realtà virtuale utile a qualche trombone per giustificare qualche plus, e non fatemi dire altro. I giornalisti liberi, più in generale gli uomini liberi, sono una cosa concreta, tangibile, incontrabile per la strada, rara.
Piuttosto che tenere il broncio e gridare indignati nelle cosiddette "manifestazioni", scrivete della sentenza del Gip di Perugia (non luogo a procedere per De Magistris, Nuzzi, Verasani, Apicella ed altri quattro o cinque magistrati); scrivete dell'Avvocatura dello Stato che pretende di piegare la Corte Costituzionale alle "necessità" politiche del Governo (o del Governante) sul Lodo Alfano; scrivete dell'istanza firmata da 600 cittadini italiani a Matera (22 novembre 2008) che chiedevano al Presidente Napolitano la rimozione del Procuratore Capo di Matera (Giuseppe Chieco) e del Procuratore Generale di Potenza (Vincenzo Tufano). Scrivete, spiegate, documentate, pensate che qualcuno potrà impedire a Voi delle grandi testate nazionali quello che non è riuscito ad impedire ad una piccola testata come "Il Resto"? Temete quello che non temono nemmeno modesti giornalisti di provincia indagati, perquisiti ed intercettati da anni (impunemente) dalla Procura di Matera?
Non pretendo pubblica ammenda e nemmeno celebrazioni solenni, almeno un po' di rossore, un briciolo di vergogna, un accenno di coraggio e dignità, dignità quanto basta!
Nicola Piccenna, giornalista pubblicista tessera n. 120256 (Basilicata)

lunedì 21 settembre 2009

Nicola Mancino, l'obbligo dell'azione penale per lui non esiste!

Ascoli Piceno. "Sto aspettando da anni che Nicola Mancino venga interrogato dai magistrati come imputato nell'ambito delle ultime indagini sulla strage di Via D'Amelio, e non solo come persona informata dei fatti come e' stato fatto il 17 settembre". Lo ha detto ieri sera ad Ascoli Piceno, nel corso di un incontro pubblico, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo ucciso dalla mafia nel luglio del 1992. "Come fa Mancino, che guarda caso subito dopo l'incontro del 1 luglio '92 fu nominato Ministro degli Interni - aggiunge Borsellino - (in realtà Mancino era già stato nominato da qualche giorno, si insediò il 1° luglio 1992; ndr) a non ricordare l'incontro con mio fratello, e addirittura a dire che non lo conosceva fisicamente? Mio fratello era conosciuto da tutti, a livello pubblico, figuriamo da uomini politici cosi' importanti". Salvatore Borsellino, accompagnato ad Ascoli da Gioacchino Cenchi, ha poi affermato che "finalmente dopo 17 anni di lotte e battaglie per la verita' e la giustizia sulla strage di Via D'Amelio, ora, per merito di giudici coraggiosi cominciano ad emergere alcune rivelazioni importanti su quelle vicende : ma siamo ancora lontani dal cuore della verita' stessa, e dai contenuti della trattativa intercorsa tra esponenti dello Stato e delle Mafia". (da www.antimafia2000.com).


Sono anni che Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo martirizzato insieme con la scorta in Via D'Amelio a Palermo, avanza ipotesi di gravissimi reati in capo a Nicola Mancino. Lo fa pubblicamente e "apertis verbis". Mancino non lo ha mai querelato e questo potrebbe sembrare conseguenza di un ultimo pudore residuo verso la verità e le vittime che hanno pagato con un prezzo altissimo la fedeltà allo Stato Italiano ed alla sua Costituzione. Non è così. Si tratta di un semplice calcolo. Mancino sa che querelando Salvatore Borsellino si aprirebbe un procedimento penale, verrebbero iscritti reati ed indagati e si avvierebbe un'inchiesta. Lo sa perché l'ordinamento giudiziario non consente deroghe o interpretazioni: ad una denuncia segue necessariamente un procedimento penale. Perché alle denunce (decine, forse centinaia) di Salvatore Borsellino nessun magistrato ha iscritto Nicola Mancino nel registro degli indagati? Misteri d'Italia!

lunedì 14 settembre 2009

Per capire quello che sta succedendo bisogna sapere che...

Giovedì 16 luglio 1992. Un confidente dei carabinieri di Milano rivela che si sta preparando un attentato ad Antonio Di Pietro e a Paolo Borsellino. La fonte è ritenuta altamente attendibile ed il raggruppamento ROS di Milano invia un rapporto alla Procura di Milano ed a quella di Palermo. L’informativa è inviata per posta ordinaria ed arriverà a Palermo dopo la strage di Via D’Amelio. In seguito a questa notizia viene pesantemente rafforzata la scorta a Di Pietro ed alla sua famiglia, il PM milanese non dorme neppure a casa sua. Il maresciallo Cava del ROS di Milano tenta anche di mettersi in contatto diretto con la Procura palermitana ma senza risultato. Borsellino interroga Gaspare Mutolo. È l’ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerà lunedì prossimo. È tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre più incupito. Saluta Mutolo ed è l’ultima volta che lo vede.

Venerdì 17 luglio 1992. In mattinata Paolo Borsellino incontra a Roma il capo della polizia Vincenzo Parisi per rivolgergli una richiesta particolare: il rafforzamento della propria scorta. La richiesta è stata formulata da dieci agenti del nucleo scorte di Palermo che si rendono conto che il magistrato è in immediato pericolo di vita e le misure per proteggerlo sono insufficienti. Gli agenti chiedono a Parisi solo di essere armati e di avere il via all’operazione. Dopo il colloquio con Parisi il sistema con cui viene organizzata la scorta di Borsellino resta immutato. Di ritorno da Punta Raisi, Borsellino fa un salto in procura per mettere i verbali in cassaforte, fare qualche telefonata e salutare i colleghi. Li abbraccia anche, uno per uno. «Loro si meravigliano – racconta Rita Borsellino – perché è una cosa che Paolo non ha mai fatto. Almeno tre o quattro di loro, e tra questi Ignazio De Francisci e Vittorio Teresi, affermano di essere rimasti sconvolti da quell’episodio: “Paolo, ma che stai facendo?” E lui, al solito scherzando: “E perché vi stupite? Non vi posso salutare?”» Dalla procura, Borsellino torna a casa in auto. A guidare la Croma c’è una carabiniere della Dia. Il magistrato tira fuori dalla tasca il suo cellulare, compone un primo numero, poi un secondo e parla concitatamente. Il carabiniere che lo ascolta riferisce che era “stravolto”. Riesce a captare solo qualche parola: “Adesso noi abbiamo finito, adesso la palla passa a voi”. I due cellulari chiamati dal magistrato sono intestati al comune di Nicosia ed alla procura di Firenze. “Mi pare che poi si accertò – dirà Gioacchino Genchi, consulente informatico delle procure – che uno fosse il dottor Vigna e l’altro il dottor Tinebra, in quanto il cellulare era allora a lui in uso”. Borsellino arriva in famiglia nel tardo pomeriggio, teso, nervoso. A casa, però, trova spazio per un momento di ottimismo. Dice a Manfredi: “Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo”. Non fa il nome di Mutolo, non può farlo, ma confida a suo figlio che c’è un nuovo pentito, uno che sa tante cose, che ha fatto rivelazioni su uomini d’onore vicini a Riina. Ma c’è di più, anche se quel di più Manfredi lo verrà a sapere solo dopo: il giorno precedente, Mutolo ha promesso di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ecco perché Borsellino è così nervoso. Ad un tratto propone ad Agnese: “Andiamo a Villagrazia, ho bisogno di un po’ d’aria, ma senza scorta, da soli”. Agnese è stupita. “Da soli, Paolo, cosa c’è? È successo qualcosa?” “Andiamo”, ordina. La moglie lo conosce, lo segue. In macchina, in silenzio, mentre cala la sera, Agnese lo guarda, capisce che è tormentato da mille angosce, mille dubbi. Riesce a fargli ammettere che qualcosa è successo: Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha accusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo è sconvolto, confida ad Agnese che alla fine dell’interrogatorio era così traumatizzato da avere addirittura vomitato.

Sabato 18 luglio 1992. Paolo Borsellino lavora in procura la mattina in procura e nel pomeriggio si reca a far visita alla madre in via D’Amelio, per assisterla durante la visita del cardiologo Pietro Di Pasquale, che aveva promesso un consulto domiciliare.

Tuttavia il cardiologo non può recarsi all’appuntamento per un problema all’auto e si mette d’accordo con Borsellino per una visita alla madre nel suo studio il giorno successivo. Prima di rincasare Borsellino si ferma all’hotel Astoria Palace, in via Montepellegrino.
Lì incontra David Monti, il Pm di Aosta in vacanza in città che gli ha telefonato per incontrarlo e salutarlo. Monti è il magistrato che condurrà a metà degli anni novanta l’inchiesta Phoney Money, su un giro di miliardi riciclati nel quale sono coinvolti faccendieri italiani in rapporti molto stretti con i servizi segreti americani. Tornando a casa, quella sera, Borsellino saluta il suo portiere, don Ciccio, lo abbraccia e lo bacia. Anche in questo caso sono effusioni insolite, atipiche, mai manifestate prima. Il portinaio del palazzone di via Cilea le riferirà, commosso, ai familiari del giudice, nei giorni successivi alla strage.

Domenica 19 luglio 1992. Alle 5 di mattina Borsellino riceve una telefonata dall’altra parte del mondo, sono Fiammetta e l’amico Alfio Lo Presti che gli telefonano per sentire come sta e per parlare con lui. Dopo la telefonata Borsellino scrive una lettera ad una professoressa di Padova che lo aveva invitato per un dibattito. Quell’invito non è mai arrivato a Borsellino, e la docente protesta: essere un giudice famoso e stracarico di lavoro non deve far dimenticare le buone maniere. C’è anche un questionario con dieci domande: Come e perché è diventato Giudice? Cosa sono la Dia e la Dna? Quali le differenze tra mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita? Quali i rapporti tra la mafia italiana e statunitense? Borsellino, con una pazienza davvero infinita, risponde con una lunga lettera alla professoressa risentita, una lettera che oggi sembra quasi un testamento spirituale. Alle 7.00, squilla nuovamente il telefono. A quell’ora, è una chiamata insolita. Agnese si preoccupa, si alza dal letto, raggiunge lo studio, ascolta. La conversazione dura pochi minuti. Agnese sente Paolo replicare infuriato: “No, la partita è aperta”. Poi il rumore della cornetta sbattuta sul telefono. “Che succede?” Borsellino alza gli occhi, si accorge di averla svegliata, ma è troppo arrabbiato persino per scusarsi: “Lo sai chi era? Quel... Era Giammanco” Poi, congestionato per la rabbia, le racconta che il procuratore l’ha chiamato dicendogli che per tutta la notte non ha chiuso occhio, al pensiero di quella delega sulle indagini di mafia a Palermo, al pensiero delle polemiche sugli interrogatori di Mutolo. I tempi sono maturi, gli annuncia Giammanco, perché finalmente questa delega gli venga conferita. Il capo la firmerà domani mattina, in ufficio, e gliela conferirà prima della sua partenza per la Germania. Si, ma perché lo chiama di domenica? A quell’ora? “Ma perché tanta fretta?” chiede Agnese. Quella delega la aspetta da mesi. Eppure Borsellino, piuttosto che contento è turbato, arrabbiato. Passeggia, si agita, fa su e giù per il corridoio di casa. Riferisce alla moglie: “Lo sai che mi ha detto? Così la partita è chiusa”. “La partita? E tu?” Borsellino alza ancora la voce: “E io? Non l’hai sentito? Gli ho urlato: la partita è aperta”. Altro che chiusa, sono comportamenti di cui Giammanco dovrà rendere conto al momento e nella sede più opportuna, spiega Borsellino alla moglie. Poi si accorge che nello studio è arrivata pure Lucia. “Oh Lucia, pure tu ti sei svegliata? Mi dispiace... Senti, gioia, vuoi venire con noi a Villagrazia? Magari riuscirò a vederti un po’ abbronzata”. Borsellino ora sorride, programma all’istante la giornata: subito a Villagrazia a prendere il sole, poi insieme a Lucia a prendere la nonna per portarla dal cardiologo, infine ritorno a casa: la ragazza a studiare, lui a lavorare. Ma Lucia è irremovibile. “Non posso, mi dispiace, lo sai che domani ho un esame”. Neanche Manfredi, quella domenica, accetta di accompagnare papà al mare, nel villino estivo, in un orario così mattiniero. “La sera prima – ricorda il ragazzo – avevo fatto tardi, volevo prendermela comoda, così gli dissi: vai avanti, papà, poi ti raggiungo”. Né Lucia né Manfredi lo accompagnano. Borsellino è un po’ seccato, ma non cambia i suoi programmi. Agnese esce di casa per prima, quella mattina, si avvia a Villagrazia con un cugino, il marito la raggiungerà verso le dieci. Quando più tardi anche Manfredi arriva a Villagrazia, sono già le undici, ed il ragazzo trova davanti al villino gli agenti della scorta. Lo informano: “Suo padre è uscito in barca, con l’amico Vincenzo Barone, è andato a fare un bagno al largo”. Dopo il bagno, con il motoscafo i due amici vanno a Marina Longa, si intrufolano in un condominio privato in cui si entra dal mare. Lì c’è un ristorante dove Agnese è andata a comprare del pesce, con un’amica. Il giudice spera di incontrarla per tornare in barca, insieme a lei. Ma non la vede. La moglie, infatti, è appena rincasata a piedi. Quando torna a casa, Borsellino si affretta verso il villino di Pippo e Mirella Tricoli, vecchi amici di famiglia, per pranzare con loro. C’è un vassoio di panelle e crocchette, il pesce, i dolci. Il pranzo è disteso, sereno. Eppure Pippo Tricoli, testimonierà che quel giorno, senza farsi sentire dai familiari, Borsellino, preoccupatissimo, gli confida i suoi timori: “È arrivato il tritolo per me”. È l’ultimo segnale di allarme lanciato da un uomo ormai consapevole di essere rimasto solo. All’improvviso squilla il cellulare: è Antonio Manganelli, dirigente del servizio centrale operativo della polizia. Gli comunica i dettagli sulla partenza per la Germania, e Borsellino tira subito fuori l’agenda rossa, per annotare gli spostamenti previsti. Quando il pranzo si conclude Borsellino si sposta davanti alla tv per seguire la sua antica passione, il ciclismo. Quel giorno c’è un’altra tappa del tour de France. Poi saluta gli amici, per un piccolo riposo pomeridiano. “Vado a dormire un po’ ”, dice, e torna al suo villino, da solo. Si distende sul letto, ma non chiude occhio. Agnese troverà sul comodino il posacenere pieno di cicche di sigarette. Ne ha fumate cinque in poco più di un’ora. Quando Borsellino torna in giardino, Lacoste azzurra, jeans, mocassini leggeri Tod’s, regalo di Lucia, sono le 16.30. Ha con sé la borsa portadocumenti dove ha lasciato scivolare le sue carte, l’inseparabile pacchetto di Dunhill, il costume, ancora un poco umido. E dove ha riposto la sua agenda rossa, fresca degli ultimi appunti della giornata. Passa dal villino degli amici, affianco al suo, saluta tutti, abbraccia e bacia Pippo Tricoli, con uno slancio inusuale, che lascia stupito l’amico, poi Manfredi e Vincenzo Barone lo accompagnano allo slargo davanti al cancello, dove sostano le auto blindate. “Ciao a tutti” si congeda. “Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore”. Apre lo sportello posteriore della Croma blindata, e lì posa la sua borsa. Un ultimo saluto. L’auto parte sgommando verso l’autostrada che conduce a Palermo. Comincia il viaggio, l’ultimo viaggio di Paolo Borsellino. Ore 16.58 e 20 secondi: una carica esplosiva di circa 100 Kg di tritolo brilla all’interno di una FIAT 126 parcheggiata in via D’Amelio in prossimità dell’ingresso della casa dove abita la madre del Magistrato. Vengono uccisi Paolo Borsellino e gli agenti Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano ed Eddie Walter Cosina. Resta ferito l’ultimo agente della scorta, Antonio Vullo, che si salva poiché era l’unico rimasto all’interno di una delle auto blindate.

venerdì 11 settembre 2009

TORERO CAMOMILLO: IL MATADOR CHI E'?

Forse una gigantesca risata, una risata italiana, europea, mondiale! Questo resterà e questo è tutto, ma è anche la fine della residua credibilità di un personaggio che è stato (a suo modo) davvero grande. Peccato, perché non era il male assoluto e forse non era neanche male. Adesso viene la stagione della resa dei conti ma, come al solito, non si renderà un bel niente. Tutto ricadrà sulle spalle di uno, mentre i tanti (veri) manovratori resteranno nell'ombra di un nuovo equilibrio che già esiste. Mandano il matador allo sbaraglio, armato della sua pochezza e già hanno scelto chi vestirà la candida veste dopo il pogrom imminente. Tutto deve cambiare affinchè nulla cambi! Almeno godiamoci quest'ultima risata che ci ha regalato sperando, come nella canzone, che ne venga fuori in qualche fortunoso modo.

Lallara lallara lallara lalla la olè!

Già il toro è nell'arena,
però non c'è il torero
Cos'è questo mistero?
Chissà dove sarà!

Olé!

Lo cercano dovunque,
la folla intanto grida
che vuole la corrida,
che vuole il matador.

Olé Olé Olè!

Rit:
Il matador chi è?
Torero Camomillo,
il matador tranquillo,
che dorme appena può.
Torero Camomillo
se il toro ti è vicino
tu schiacci un pisolino
e non ci pensi più.

Lallara lallara lallara lalla la olè!

Ed ecco finalmente
che scende nell'arena
non sembra darsi pena,
va con tranquillità.

Olé!

Avanza lemme lemme,
si piega sui ginocchi
e si stropiccia gli occhi
il grande matador.

Olé Olé Olè!

Rit:
Il matador chi è?
Torero Camomillo,
il matador tranquillo,
che dorme appena può.
Torero Camomillo
se il toro ti è vicino
tu schiacci un pisolino
e non ci pensi più.

Lallara lallara lallara lalla la olè!

La folla va in delirio,
vedendo quel torero
accarezza il toro
e poi ci dorme su.

Olé!

E' buono e sottomesso,
quel toro grande e grosso
che fa da materasso
al grande matador.

Olé Olé Olè!

Rit:
Il matador chi è?
Torero Camomillo,
il matador tranquillo,
che dorme appena può.
Torero Camomillo
se il toro ti è vicino
tu schiacci un pisolino
e non ci pensi più.

Lallara lallara lallara lalla la olè!

venerdì 4 settembre 2009

Viva Jannelli, viva il TAR del Lazio, viva l'Italia

La decisione del CSM che impediva al Dr. Enzo Jannelli (ex proc. gen. a Catanzaro) di occupare scranni presso la Suprema Corte di Cassazione "non si rivela assistita da adeguata motivazione e non è immune da censure". A scriverlo è stato il TAR del Lazio in una recentissima sentenza. Jannelli era stato fra i protagnisti di una pagina nerissima dell'amministrazione della giustizia in Italia, quella passata ormai alla storia "mediatica" come "guerra tra procure" (Salerno e Catanzaro). Che la Procura di Catanzaro, sotto la diretta responsanilità di Enzo Jannelli, abbia potuto sequestrare le evidenze (presuntivamente) probatorie dei reati ipotizzati in capo a numerosi magistrati catanzaresi tra cui lo stesso Jannelli, costituisce un unicum che nessun TAR, nessuna Cassazione e nessun CSM riusciranno mai a spiegare. Cos'altro deve fare un magistrato per non meritare avanzamenti di carriera? In altri paesi e fors'anche in un'Italia ligia alla Costituzione Repubblicana, Jannelli e molti altri colleghi suoi degni compari sarebbero stati sospesi dalle funzioni e dallo stipendio. Nel marasma italiano di oggi, gli spianano la strada verso i vertici del sistema giudiziario. Complimeti, signori del TAR. Complimenti signor Ministro Alfano. Complimenti Dr. Jannelli. Complimenti On. Pres. Giorgio Napolitano. Ed un complimento particolare all'Associazione Nazionale Magistrati. Chi con il silenzio e chi con l'azione, tutti concorrono allo stato di sfiducia verso la Giustizia Italiana che, come ben sappiamo, viene amministrata "in nome del Popolo Italiano". Ma, come appare evidente, non nell'interesse del Popolo medesimo. (di Nicola Piccenna)