mercoledì 21 ottobre 2009

CSM e la tutela del Dr. Mesiano: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?»

«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?». Gesù era circondato da falsi maestri, sempre pronti a giudicare e condannare gli altri e incapaci di esaminare se stessi. Alla radice delle loro falsità c’era la presunzione, l’atteggiarsi ipocritamente a maestri e guide senza averne le doti. Dice loro esplicitamente «ciechi e guide di ciechi». «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?» «Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».
Così accade che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia condannato il 19 ottobre scorso i magistrati Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani alla perdita di anzianità ed al definitivo trasferimento ad altra sede ed altre funzioni. Tutto nasce dal provvedimento con cui Nuzzi e Verasani disposero la perquisizione ed il sequestro di materiali e documenti inerenti l'inchiesta che vedeva (e vede) coinvolti i vertici della Procura della Repubblica e della Procura Generale di Salerno, insieme con diversi magistrati di quella città e del distretto giudiziario di Basilicata. Proprio lo stesso provvedimento che tutti i gradi di giudizio cui è stato sottoposto (dal GIP alla Suprema Corte di Cassazione) hanno valutato legittimo, corretto e opportuno (anzi doveroso). Nessuno ha fiatato. Non un magistrato. Non un politico. Non un membro del CSM. Non un membro dell'ANM. Non un illustre costituzionalista. Non il Presidente Napolitano. Ipocriti! Mille volte ipocriti. Adesso che piagnucolano in difesa del Dr. Raimondo Carmelo Mesiano e si inalberano per “l'offesa alla magistratura” e simili alte grida. Ipocriti, mille e mille volte ipocriti! Il Dr. Mesiano non meritava certo il trattamento riservatogli da qualche giornalista al soldo di un noto politico. Non meritava nemmeno che si ironizzasse sui suoi calzini color turchese. Meno ancora è tollerabile la lunga teoria di contumelie che gli sono state indirizzate dai soliti politici schiavi di un seggio parlamentare o ministeriale. Ma come si fa a non vedere la trave piantata nell’occhio del sistema giudiziario italiano con la condanna di Nuzzi e Verasani e, prima, di Luigi de Magistris? E fra gli ipocriti, in prima fila, una certa stampa. Quella dei milioni di lettori e dei contratti pubblicitari faraonici. Quella che rivendica in piazza una presunta libertà perduta, che difende Napolitano anche quando è indifendibile. Quella che dovrebbe svelare “di che lagrime grondi e di che sangue” ed oggi, ipocritamente, si scandalizza per Mesiano ma finge di non conoscere Nuzzi, Verasani e De Magistris. Ipocriti!

sabato 17 ottobre 2009

Gli uomini di buona volontà e la Corte Costituzionale

Come è possibile che la Corte Costituzionale, il supremo garante della Costituzione Repubblicana sia così radicalmente divisa su questioni di “banale” lettura? Il “Lodo Alfano” che stabiliva un trattamento diverso davanti alla Legge per 4 italiani vìola l'articolo 3 della Costituzione, anzi violava. Questo lo capisce chiunque sappia leggere l'italiano. E allora perché 6 giudici su 15 la pensano diversamente? E perché i “6” ci tengono a ribadirlo votando una “mozione di minoranza”? È tutto qui. Il senso delle istituzioni, il rispetto per lo Stato e per la stessa Corte Costituzionale, tutto qui. In questo ostentare una posizione che non è giuridicamente fondata, nemmeno logicamente consistente. Soprattutto istituzionalmente dirompente. È il relativismo istituzionale: porre l'istituzione dopo gli interessi di una parte politica, di un gruppo, di alcuni potenti di turno. Anche legittimi, perbacco! È la dimostrazione che quello che ha rivelato il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, contiene elementi di verità (non è tutta verità, ma quasi). Le scelte, le decisioni, anche quelle più “alte” sono condizionate da amicizie, legami, posizioni che non sono algidamente derivanti da norme, codici, leggi e, meno ancora, da un dichiarato amore per lo Stato e le Istituzioni. Come potrebbe essere diversamente? Potremmo forse pretendere che gli uomini uscissero dalla propria pelle per entrare in uno scafandro amorfo? Almeno si è chiarito un punto fondamentale: non sono le strutture a garantire alcunché. Cosa volete che cambi se i giudici nominati in tal misura dal Parlamento siano preponderanti su quelli nominati dal Presidente della Repubblica o viceversa? Come potremmo sentirci meglio “tutelati” se la composizione del CSM fosse più massicciamente rappresentativa dei partiti piuttosto che delle correnti politico-giudiziarie interne alla magistratura? Non esiste una formula, una composizione strutturale che assicuri in se stessa di sfuggire alle brame invereconde di qualcuno. È una questione di uomini, di questo o quello, di quanto hanno già dimostrato in bene o in male, della capacità di ammettere i propri errori e porvi rimedio. Non esiste l'uomo della provvidenza (che resta un dono divino e, perciò, imprevedibile), ci sono uomini degni di fiducia perché hanno già dato prova di sé. Sono facilmente individuabili, anche a prescindere da quante volte compaiano in TV o scrivano sui giornali. Basta essere un po' meno cinici, un po' meno calcolatori, un po' meno miopi. Se ne trovano in tutti gli schieramenti, partiti, movimenti, associazioni, persino nelle fazioni. Sono pieni di difetti e commettono errori come tutti, ma hanno uno sguardo diverso e non si fa fatica a tributar loro stima e fiducia. Sono quelli de “la rivolta dei buoni”, come li definì un noto giornalista del Corriere della Sera. Sono gli “uomini di buona volontà”, come li chiamò qualcuno degno di fede. È l'unico “movimento” cui ci si può iscrivere senza nemmeno dichiararlo e parteciparvi senza muoversi da casa e sostenerlo facendo semplicemente il proprio mestiere (dovere?).

domenica 11 ottobre 2009

Napolitano ed il relativismo istituzionale: come ai "bei tempi" di Alexander Dubček

Sono passati alcuni giorni dal pronunciamento della Corte Costituzionale sul "Lodo Alfano" e (forse) possiamo guardare dalla giusta distanza l'immagine che ne deriva. E' proprio così, i quadri vanno guardati dalla giusta distanza: se troppo da vicino si colgono solo alcuni particolari, perdendone la visione d'insieme; se troppo da lontano, l'immagine appare sfocata, indefinita, incomprensibile.
Adesso, invece, il quadro dell'Italia nelle sue più alte istituzioni appare in tutta la sua tragica precisione:
1) Qualcuno assicura a Berlusconi che il "Lodo" passerà. Non sulla base del diritto, della legge, della Costituzione ma per via di sollecitazioni, pressioni, inciuci. Berlusconi ci dice anche chi avrebbe dato un siffatta garanzia: Giorgio Napolitano. Che sia vero o meno, per il capo del Governo la prassi è assolutamente "normale", la via praticabile. Che la Corte Costituzionale decida sulla base delle pressioni (vere o presunte) di Napolitano gli va proprio bene: non è la costituzione che si deve tutelare ma gli interessi di un potere. Di un gruppo di potere che dialoga e media con l'altro gruppo di potere. Le Istituzioni della Repubblica sono strumento per amministrare gli interessi di alcuni, non quelli preminenti del Popolo;
2) Tutti sanno che quello che dice Berlusconi è vero, lo sanno perché tutti praticano il relativismo istituzionale e ne godono ampiamente. Quando si è trattato di bloccare le inchieste di Luigi de Magistris, il Presidente Napolitano, il Consiglio Superiore della Magistratura, i governi (Berlusconi, Prodi e Berlusconi) ed i vari Ministri della Giustizia (Castelli, Mastella, Scotti e Alfano), la Suprema Corte di Cassazione, l'Associazione Nazionale Magistrati, i vertici della Procura di Catanzaro e di Potenza, le segreterie di tutti i partiti dell'arco costituzionale (esclusa la sola IdV), hanno calpestato i Codici, le Leggi, la logica e persino il buon senso. "Colleghi dove eravate?" ha scritto un coraggioso magistrato (Gabriella Nuzzi), richiamando le responsabilità di quanti hanno avuto in mano le evidenze probatorie degli abusi commessi con il "visto si proceda" esplicito del Presidente Napolitano. "Colleghi dove siete?", verrebbe da dire oggi dopo quello che abbiamo appreso dalla viva voce del Cavaliere (circa la sensibilità alle pressioni politiche dei Giudici della Corte Costituzionale) e da quella dell'ex ministro Claudio Martelli (circa le trattative Stato-Mafia, che poi in realtà sono Stato-Mafia-Massoneria, stando agli atti giudiziari noti;
3) Il primo ministro è, di fatto, prigioniero di tutti: a) dei suoi alleati di coalizione che potrebbero sfiduciarlo in qualsiasi momento giustificando anche bene la cosa; b) dell'opposizione che potrebbe chiederne la testa su un piatto d'argento viste le abominevoli ammissioni sul piano della correttezza istituzionale e le esplicite "minacce" di rivelare per intero la vicenda "Napolitano"; c) dei giudici del Tribunale di Milano che, condannandolo per la vicenda "Mills", ne decreterebbero la fine politica; d) dei leader degli altri paesi G8, G20, G40 e G-vattelapesca che, potendolo ridicolizzare in qualsiasi occasione per l'affaire "escort", lo tengono, come si suol dire, "per le palle". Un pupazzo, ostaggio di tutti e prigioniero del proprio orgoglio e della terribile solitudine in cui si è ridotto;
4) Il Presidente Napolitano che di fatto (vedi "sparata" a Lagonegro verso un cittadino che gli chiedeva di non firmare la Legge sullo Scudo Fiscale) abdica alle funzioni di custode della Costituzione. Atteggiamento confermato anche in occasione della firma per promulgare il Lodo Alfano. Le scuse addotte e abbracciate da maggioranza ed opposizione (sempre escludendo il prode Di Pietro) sono giuridicamente infondate e umanamente infantili. Del resto, fuor di ipocrisia, un parlamentare che approvò l'intervento russo per soffocare nel sangue la Primavera di Praga, non può cavarsela dicendo di aver sbagliato. Quantomeno dovrebbe riconoscere di non poter aspirare alla tutela del Costituzione di un Paese democratico. I comportamenti tenuti durante l'intera vicenda "De Magistris" e le posizioni assunte durante la "guerra tra le Procure di Salerno e Catanzaro", confermano che dai tempi di Alexander Dubček, Napolitano non è poi cambiato molto. La sensibilità istituzionale e costituzionale, del resto, Napolitano l'aveva dimostrata ignorando di fatto l'appello di 600 cittadini affinchè venissero trasferiti (almeno) due magistrati lucani (Giuseppe Chieco e Vincenzo Tufano) in palese stato d'incompatibilità funzionale ed ambientale per loro stessa esplicita ammissione.
E mentre il relativismo istituzionale consente a ciascun potentato di continuare a sviluppare i propri interessi e la Repubblica affonda:
1) si continua a pompare il petrolio lucano senza che sia mai stato chiarito chi controlla i quantitativi estratti. Si tratta del più grande giacimento continentale d'Europa, forse in grado da solo di ripianare il debito pubblico italiano;
2) si continua ad inquinare il Sud Italia con rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, senza preoccuparsi minimamente della rimozione di quelli già scoperti;
3) si finge di non vedere la crisi della proba popolazione meridionale, troppo dignitosa per ammettere di essere ridotta alla fame.
Chi ha orecchie per udire, intenda!

martedì 6 ottobre 2009

Ghedini e l'applicazione personalizzata delle Leggi

L'avvocato Ghedini, parlamentare e difensore (in giudizio) del premier Silvio Berlusconi, ci ha spiegato che la Legge è uguale per tutti. Quello che cambia, a seconda delle persone, è l'applicazione della Legge. Sembra un'affermazione provocatoria ma abbiamo certezza che non sia così, Ghedini parlava sul serio, purtroppo. Questa è l'Italia in cui vorrebbero ci rassegnassimo a vivere, una nazione in cui i giudici applicano le Leggi non in base alle evidenze processuali ma a seconda del nome e del cognome dei giudicati. Nelle sentenze è scritto che vengono assunte "in nome del popolo italiano", ma questo aspetto Ghedini non l'ha ancora affrontato (per ora!)

p.s. Mi chiamo Piccenna Nicola, cosa prevedono per me le norme applicative della Legge?

domenica 4 ottobre 2009

"ce faranno un ber discorso su la Pace e sul Lavoro pe’ quer popolo cojone..."

C'è chi distribuisce salamelecchi a piene mani e chi aggettivi qualificativi. Siffatti "tipi umani" complicano la comprensione dei fatti lasciando spazio alle polemiche strumentali cui assistiamo in queste ore (vedi il "caso Di Pietro" relativamente alle accuse di viltà indirizzate al Presidente Napolitano). Il risultato, se non proprio l'obiettivo, è distrarre, distogliere da quanto accade e da "chi decide cosa".
Veniamo ai fatti, gli aggettivi ciascun ne metta a piacimento.
Il Presidente Napolitano rimbrotta un cittadino di Lagonegro (Basilicata) che gli chiedeva di non firmare la Legge sullo "Scudo Fiscale". Sostiene il Presidente che, se non firmasse, la norma tornerebbe in Parlamento dove verrebbe riapprovata e quindi sarebbe (Napolitano) comunque costretto a firmare a "stretto giro". "Una lezione di diritto costituzionale", l'ha battezzata un giornalista che pare lavori in Basilicata. In pratica, dice Napolitano che la sua firma è una formalità, un atto dovuto e ineluttabile. La domanda sorge spontanea: a cosa serve? Se un atto è dovuto ed ineluttabile, perché perdere tempo? Si potrebbe modificare la Costituzione e prevedere che per promulgare una Legge occorra solo il timbro della Presidenza della Repubblica; dotare il capo del governo di siffatto prodotto autoinchiostrante e, di conseguenza, accelerare l'iter parlamentare che già è abbastanza lungo e farraginoso. Invece, signor Presidente, non è così. Non ancora! La Sua firma garantisce il "controllo di costituzionalità" delle Leggi e la mancata firma diventa un problema serio, molto serio. Con questo non s'intende sostenere le ragioni di chi avrebbe gradito che il Presidente non firmasse, semplicemente si vuole chiarire che firmando si è assunto una responsabilità. Ha effettuato una valutazione. Ha espresso un giudizio. Tutto assolutamente rispettabile, ma sono responsabilità, precise e sottoscritte responsabilità. Come quelle che Napolitano assunse ai tempi della Primavera di Praga e di cui, correttamente, ha fatto pubblicamente ammenda. Come quella che si è assunto promulgando il Lodo Alfano e di cui sarà chiamato a fare ammenda se la Corte Costituzionale dovesse dichiararne l'incostituzionalità. Ma saranno davvero liberi e scevri da illazioni i giudici che il 6 ottobre esprimeranno questo giudizio? Potranno mai esserlo, dopo l'inusitata intromissione degli interessi governativi che l'avvocatura dello Stato ha ficcato come parte integrante del giudizio di costituzionalità? Poi, il Presidente Napolitano, sempre in quel di Rionero, ha espresso un chiaro giudizio sulla classe politica della Basilicata. Rientra nelle prerogative del Capo dello Stato e nei suoi compiti dare il voto agli amministratori locali? Certamente fa parte della libertà di espressione del proprio pensiero. Napolitano pensa che i maggiorenti lucani della politica e dell'amministrazione siano un concentrato di virtù e li indica come esempio urbi et orbi. Forse ignora, monsieur le President, che fino a qualche mese fa il governatore lucano, Vito De Filippo, non sapeva quanto petrolio si estrae dal sottosuolo di Basilicata e quali controlli vengano effettuati su dette estrazioni. Nemmeno mostra di sapere che tutta la valle del Basento è inquinata della chimica degli anni 60/80. Non fa cenno alla commistione d'interessi che porta la TOTAL e distribuire commesse in cambio di tangenti e posti lavoro che vengono poi venduti a padri umiliati e questuanti. Ignora che un deposito di materiali radioattivi scarica in mare l'acqua di raffreddamento delle barre di combustibile atomico esausto, a Rotondella, a 1500 metri dalla spiaggia frequentata dal popolo lucano (e non). Mostra di non sapere che l'amianto della Materit e quello della Ferbona e quello... hanno mietuto decine di vittime ed altre decine ne mieteranno nei prossimi anni. E non credo conosca molte altre questioncelle che fanno della Basilicata una luogo poco salubre e meno ancora gradevole proprio per la presenza di quella osannata "classe dirigente". Però s'inalbera, Napolitano, e reagisce stizzito dispensando lezioni di non so più cosa. Viene in mente Trilussa:

E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe’ quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

venerdì 2 ottobre 2009

Napolitano, Nuzzi, de Magistris e la posta in gioco

È in atto un confronto di idee che stenta a scendere sul piano dei fatti concreti ma che, se dovesse farlo, comporterebbe grandi cambiamenti nella vita degli italiani. La difficoltà ha due fattori determinanti: 1) il “lettore medio” non legge quasi nulla; 2) il “cittadino medio” conosce e partecipa alla vita civica ancora meno. Tuttavia, questo dato di fatto non ci esime dal comunicare; che poi è anche parte della nostra stessa natura. “Dio è comunicazione”, ha scritto recentemente Sua Santità Benedetto XVI e, come si sa, l'uomo fu fatto a Sua immagine e somiglianza.


Caro Piccenna, l'hanno informata che per tutti i personaggi che Lei ha nominato è stata richiesta l'archiviazione? (1 ottobre 2009 19.39)


Caro anonimo,
il fatto che sia stata chiesta l'archiviazione e che, come Lei ben sa, è stata proposta opposizione all'archiviazione, comporterà un "grado di giudizio" tutto da esperire. Un Giudice, cioè, dovrà decidere se accogliere la richiesta di archiviazione o rigettarla disponendo il rinvio coatto a giudizio ovvero ulteriori indagini. Le sembra corretto e segno di credibilità per il sistema giudiziario italiano che gli indagati per gravissimi reati si accompagnino in pubblico e persino a cena (Emilio Nicola Buccico e Vito De Filippo) con la massima autorità dello Stato nonché presidente del Supremo Organo di Autogoverno della Magistratura nell'imminenza di un così delicato giudizio? Non cambierebbe di una virgola se il PM avesse chiesto il rinvio a giudizio. Una cosa è la presunzione di non colpevolezza, altra cosa la presunzione d'impunità. Altra cosa ancora, l'opportunità di apparire terzi. Specie quando ad esserlo si fa fatica. (1 ottobre 2009 23.50)


I commenti innanzi riportati sono relativi alla pubblicazione dell'articolo: "Napolitano in Basilicata stringerà la mano delle massime autorità: molti sono indagati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari" sul blog www.toghelucane.blogspot.com. Sono indicativi di una mentalità che è ormai diffusa tanto che anche le evidenze più solari faticano a penetrarla. Per alcuni la richiesta di archiviazione è una assoluzione a tutto campo, per altri la richiesta di rinvio a giudizio è una condanna anticipata. Poi le parti s'invertono. Per gli altri! La richiesta di archiviazione diventa la presunzione di un privilegio riservato a chi "non si vuol colpire" e la richiesta di rinvio a giudizio la "persecuzione" giudiziaria che si accanisce contro le vittime designate.
Entrambi i ragionamenti sono legittimi ma saltano l'essenziale: si tratta delle opinioni di un Pubblico Ministero, legittime e (si spera) ben fondate e supportate che devono essere valutate da un giudice (Gip/Gup) in un contesto in cui le "parti" avranno modo e spazio per far valere le proprie ragioni. Chi è accusato potrà difendersi, chi è "Parte offesa" potrà insistere nel dolersi. In tutto questo semplice meccanismo, sarebbe opportuno che il giudice venisse lasciato in pace e non subisse alcuna forma di pressione. Vedere il proprio giudicando in pubblico con il Presidente della Repubblica ed a cena con il Presidente del CSM (che poi sono la stessa persona) non è vietato. È solo inopportuno. Una semplice delicatezza verso l'On. Giorgio Napolitano, avrebbe consigliato di evitargli l'imbarazzo o, quantomeno, non metterlo nelle condizioni di affrontare prove delicate. Invece no! Non viene meno il rispetto e la deferenza verso la persona e l'istituzione, ma non si può evitare di avanzare qualche critica all'entourage. Diritto tutelato dalla Costituzione Repubblicana.


p.s. Può essere utile rileggere alcuni articoli pubblicati recentemente che forniscono a tutto tondo il quadro di un momento delicato per le istituzioni repubblicane e per l'ufficio della Presidenza della Repubblica da cui si continua (invano) ad attendere qualche risposta: "una lettera che non avrei mai voluto scrivere" di Luigi de Magistris; Cari colleghi, dove eravate? di Gabriella Nuzzi; Napolitano in Basilicata stringerà la mano delle massime autorità: molti sono indagati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari di Nicola Piccenna

Luigi de Magistris: "una lettera che non avrei mai voluto scrivere"

È una lettera che non avrei mai voluto scrivere. È uno scritto che evidenzia quanto sia grave e serio lo stato di salute della democrazia nella nostra amata Italia. È una lettera con la quale Le comunico, formalmente, le mie dimissioni dall’Ordine Giudiziario.


Lei non può nemmeno lontanamente immaginare quanto dolorosa sia per me tale decisione.


Sebbene l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro - come recita l’art. 1 della Costituzione - non sono molti quelli che possono fare il lavoro che hanno sognato; tanti il lavoro non lo hanno, molti sono precari, altri hanno dovuto piegare la schiena al potente di turno per ottenere un posto per vivere, altri vengono licenziati come scarti sociali, tanti altri ancora sono cassintegrati. Ebbene, io ho avuto la fortuna di fare il magistrato, il mestiere che avevo sognato fin dal momento in cui mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli, luogo storico della cultura giuridica. La magistratura ce l’ho nel mio sangue, provengo da quattro generazioni di magistrati. Ho respirato l’aria di questo nobile e difficile mestiere sin da bambino. Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando ho superato il concorso per diventare uditore giudiziario. Una gioia immensa che mai avrei potuto immaginare destinata a un epilogo così buio. E’ cominciata con passione, idealità, entusiasmo, ma anche con umiltà ed equilibrio, la missione della mia vita professionale, come in modo spregiativo la definì il rappresentante della Procura Generale della Cassazione durante quel simulacro di processo disciplinare che fu imbastito nei miei confronti davanti al Csm. Per me, esercitare le funzioni giudiziarie in ossequio alla Costituzione Repubblicana significava tentare di dare una risposta concreta alla richiesta di giustizia che sale dai cittadini in nome dei quali la Giustizia viene amministrata. Quei cittadini che - contrariamente a quanto reputa la casta politica e dei poteri forti - sono tutti uguali davanti alla legge. Del resto Lei, signor Presidente, che è il custode della Costituzione, ben conosce tali inviolabili principi costituzionali e mi perdoni, pertanto, se li ricordo a me stesso.


I modelli ai quali mi sono ispirato sin dall’ingresso in magistratura - oltre a mio padre, il cui esempio è scolpito per sempre nel mio cuore e nella mia mente - sono stati magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è nella loro memoria che ho deciso di sventolare anch’io l’agenda rossa di Borsellino, portata in piazza con immensa dignità dal fratello Salvatore. Ho sempre pensato che chi ha il privilegio di poter fare quello che sogna nella vita debba dare il massimo per il bene pubblico e l’interesse collettivo, anche a costo della vita. Per questo decisi di assumere le funzioni di Pubblico Ministero in una sede di trincea, di prima linea nel contrasto al crimine organizzato: la Calabria. Una terra da cui, in genere, i magistrati forestieri scappano dopo aver svolto il periodo previsto dalla legge e dove invece avevo deciso (ingenuamente) di restare.


Ho dedicato a questo lavoro gli anni migliori della mia vita, dai 25 ai 40, lavorando mai meno di dodici ore al giorno, spesso anche di notte, di domenica, le ferie un lusso al quale dover spesso rinunciare. Sacrifici enormi, personali e familiari, ma nessun rimpianto: rifarei tutto, con le stesse energie e il medesimo entusiasmo.


In questi anni difficili, ma entusiasmanti, in quanto numerosi sono stati i risultati raggiunti, ho avuto al mio fianco diversi colleghi magistrati, significativi settori della polizia giudiziaria, un gruppo di validi collaboratori. Ho cercato sempre di fare un lavoro di squadra, di operare in pool. Parallelamente al consolidarsi dell’azione investigativa svolta, però, si rafforzavano le attività di ostacolo che puntavano al mio isolamento, alla de-legittimazione del mio lavoro, alle più disparate strumentalizzazioni. Intimidazioni, pressioni, minacce, ostacoli, interferenze. Attività che, talvolta, provenivano dall’esterno delle Istituzioni, ma il più delle volte dall’interno: dalla politica, dai poteri forti, dalla stessa magistratura. Signor Presidente, a Lei non sfuggirà, quale Presidente del CSM, che l’indipendenza della magistratura può essere minata non solo dall’esterno dell’ordine giudiziario, ma anche dall’interno: ostacoli nel lavoro quotidiano da parte di dirigenti e colleghi , revoche e avocazioni illegali, tecniche per impedire un celere ed efficace svolgimento delle inchieste.


Ho condotto indagini nei settori più disparati, ma solo quando mi occupavo di reati contro la Pubblica amministrazione diventavo un cattivo magistrato. Posso dire con orgoglio che il mio lavoro a Catanzaro procedeva in modo assolutamente proficuo in tutte le direzioni, come impone il precetto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La polizia giudiziaria lavorava con sacrifici enormi, perché percepiva che risultati straordinari venivano raggiunti. Le persone informate dei fatti testimoniavano e offrivano il loro contributo. Lo Stato c’era ed era visibile, in un territorio martoriato dal malaffare. Le inchieste venivano portate avanti tutte, senza insabbiamenti di quelle contro i poteri forti (come invece troppe volte accade). Questo modo di lavorare, il popolo calabrese - piaccia o non piaccia al sistema castale - lo ha capito, mostrandoci sostegno e solidarietà. Non è poco, signor Presidente, in una Regione in cui opera una delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo. E che lo Stato stesse funzionando lo ha compreso bene anche la criminalità organizzata. Tant’è vero che si sono subito affinate nuove tecniche di neutralizzazione dei servitori dello Stato che si ostinano ad applicare la Costituzione Repubblicana.


Non so se Ella, Signor Presidente, condivide la mia analisi. Ma a me pare che - dopo la stagione delle stragi di mafia culminate nel 1992 con gli attentati di Capaci e di via D’Amelio e dopo la strategia della tensione delle bombe a grappolo in punti nevralgici del Paese nel 1993 - le mafie hanno preso a istituzionalizzarsi. Hanno deciso di penetrare diffusamente nella cosa pubblica,nell’economia, nella finanza. Sono divenute il cancro della nostra democrazia. Controllano una parte significativa del prodotto interno lordo del nostro paese, hanno loro rappresentanti nella politica e nelle Istituzioni a tutti i livelli, nazionali e territoriali. Nemmeno la magistratura e le forze dell’ordine sono rimaste impermeabili. Si è creata un’autentica emergenza democratica, da sconfiggere in Italia e in Europa. Gli ostacoli più micidiali all’attività dei servitori dello Stato sono i mafiosi di Stato: quelli che indossano abiti istituzionali, ma piegano le loro funzioni a interessi personali, di gruppi, di comitati d’affari, di centri di potere occulto. Non mi dilungo oltre, perché credo che al Presidente della Repubblica tutto questo dovrebbe essere noto.


Ebbene oggi, Signor Presidente, non è più necessario uccidere i servitori dello Stato: si creerebbero nuovi martiri; magari, ai funerali di Stato, il popolo prenderebbe di nuovo a calci e sputi i simulacri del regime; l’Europa ci metterebbe sotto tutela. Non vale la pena rischiare, anzi non serve. Si può raggiungere lo stesso risultato con modalità diverse: al posto della violenza fisica si utilizza quella morale, la violenza della carta da bollo, l’uso illegale del diritto o il diritto illegittimo, le campagne diffamatorie della propaganda di regime, si scelga la formula che più piace. Che ci vuole del resto, signor Presidente, per trasferire un magistrato perbene, un poliziotto troppo curioso, un carabiniere zelante, un finanziere scrupoloso, un prete coraggioso, un funzionario che non piega la schiena, o per imbavagliare un giornalista che racconta i fatti? E’ tutto molto semplice, quasi banale. Ordinaria amministrazione. Per allontanare i servitori dello Stato e del bene pubblico, bisogna prima isolarli, delegittimarli, diffamarli, calunniarli. A questo servono i politici collusi, la stampa di regime al servizio dei poteri forti, i magistrati proni al potere, gli apparati deviati dello Stato.


La solitudine è una caratteristica del magistrato, l’isolamento è un pericolo. Ebbene, in Calabria, mentre le persone rispondevano positivamente all’azione di servitori dello Stato vincendo timori di ritorsioni, spezzando omertà e connivenze, pezzi significativi delle Istituzioni contrastavano le attività di magistrati e forze dell’ordine con ogni mezzo.


Quello che si è realizzato negli anni in Calabria sul piano investigativo è rimasto ignoto, in quanto la cappa esercitata anche dalla forza delle massonerie deviate impediva di farlo conoscere all’esterno. Il resto del Paese non doveva sapere.


Si praticava la scomparsa dei fatti. Quando però le vicende sono cominciate a uscire dal territorio calabrese, l’azione di sabotaggio si è fatta ancor più violenta e repentina. Invece dello sbarco degli Alleati, c’è stato quello della borghesia mafiosa che soffoca la vita civile calabrese.


L’azione dello Stato produceva risultati in termini di indagini, restituiva fiducia nelle Istituzioni, svelava i legami tra mafia “militare” e colletti bianchi, smascherava il saccheggio di denaro pubblico perpetrate da politici collusi, (im)prenditori criminali e pezzi deviati delle Istituzioni a danno della stragrande maggioranza della popolazione, scoperchiava un mercato del lavoro piegato a interessi illeciti, squadernava il controllo del voto e, quindi, l’inquinamento e la confisca della democrazia.


Sono cose che non si possono far conoscere, signor Presidente. Altrimenti poi il popolo prende coscienza, capisce come si fanno affari sulla pelle dei più deboli, dissente e magari innesca quella democrazia partecipativa che spaventa il sistema di potere che opprime la nostra democrazia. Una presa di coscienza e conoscenza poteva scatenare una sana e pacifica ribellione sociale.


Lei, signor Presidente, dovrebbe conoscere - sempre quale Presidente del CSM - le attività messe in atto ai miei danni. Mi auguro che abbia assunto le dovute informazioni su quello che accadeva in Calabria per fermare il lavoro che stavo svolgendo in ossequio alla legge e alla Costituzione. Avrà potuto così notare che è stata messa in atto un’attività di indebito esercizio di funzioni istituzionali al solo fine di bloccare indagini che avrebbero potuto ricostruire fatti gravissimi commessi in Calabria (e non solo) da politici di destra, di sinistra e di centro, da imprenditori, magistrati, professionisti, esponenti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Tutto ciò non era tollerabile in un Paese ad alta densità mafiosa istituzionale. Come poteva un pugno di servitori dello Stato pensare di esercitare il proprio mandato onestamente applicando la Costituzione?


Signor Presidente, Lei - come altri esponenti delle Istituzioni - è venuto in Calabria, ha esortato i cittadini a ribellarsi al crimine organizzato e ad avere fiducia nelle Istituzioni. Perché, allora, non è stato vicino ai servitori dello Stato che si sono imbattuti nel cancro della nostra democrazia, cioè nelle più terribili collusioni tra criminalità organizzata e poteri deviati?


Non ho mai colto alcun segnale da parte Sua in questa direzione, anzi. Eppure avevo sperato in un Suo intervento, anche pubblico: ero ancora nella fase della mia ingenuità istituzionale. Mi illudevo nella neutralità, anzi nell’imparzialità dei pubblici poteri. Poi ho visto in volto, pagando il prezzo più amaro, l’ingiustizia senza fine.


Sono stato ostacolato, mi sono state sottratte le indagini, mi hanno trasferito, mi hanno punito solo perché ho fatto il mio dovere, come poi ha sancito l’Autorità Giudiziaria competente. Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto, anche se una parte del Paese aveva e ha capito quel che è accaduto, ha compreso la posta in gioco e me l’ha testimoniato con un affetto che Lei non può nemmeno immaginare. Un affetto che costituisce per me un’inesauribile risorsa aurea.


Ho denunciato fatti gravissimi all’Autorità giudiziaria competente, la Procura della Repubblica di Salerno: me lo imponeva la legge e prima ancora la mia coscienza. Magistrati onesti e coraggiosi hanno avuto il solo torto di accertare la verità, ma questa ancora una volta era sgradita al potere. E allora anche loro dovevano pagare, in modo ancora più duro e ingiusto: la lezione impartita al sottoscritto non era stata sufficiente.


La logica di regime del “colpirne uno per educarne cento” usata nei miei confronti non bastava ancora a scalfire quella parte della magistratura che è l’orgoglio del nostro Paese. Ci voleva un altro segnale forte, proveniente dalle massime Istituzioni, magistratura compresa: la ragion di Stato (ma quale Stato, signor Presidente?) non può tollerare che magistrati liberi, autonomi e indipendenti possano ricostruire fatti gravissimi che mettono in pericolo il sistema criminale di potere su cui si regge, in parte, il nostro Paese.


Quando la Procura della Repubblica di Salerno - un pool di magistrati, non uno “antropologicamente diverso”, come nel mio caso - ha adottato nei confronti di insigni personaggi calabresi provvedimenti non graditi a quei poteri che avevano agito per distruggermi, ecco che il circuito mediatico-istituzionale, ai più alti livelli, ha fatto filtrare il messaggio perverso che era in atto una “lite fra Procure”, una guerra per bande. Una menzogna di regime: nessuna guerra vi è stata, fra magistrati di Salerno e Catanzaro. C’era invece semplicemente, come capirebbe anche mio figlio di 5 anni, una Procura che indagava, ai sensi dell’art. 11 del Codice di procedura penale, su magistrati di un altro distretto. E questi, per ostacolare le indagini, hanno a loro volta indagato i colleghi che indagavano su di loro, e me quale loro istigatore. Un mostro giuridico. Un’aberrazione di un sistema che si difende dalla ricerca della verità, tentando di nascondersi dietro lo schermo di una legalità solo apparente.


Questa menzogna è servita a buttare fuori dalle indagini (e dalla funzioni di Pm) tre magistrati di Salerno, uno dei quali lasciato addirittura senza lavoro. Il messaggio doveva essere chiaro e inequivocabile: non deve accadere più, basta, capito?!


Signor Presidente, io credo che Lei in questa vicenda abbia sbagliato. Lo affermo con enorme rispetto per l’Istituzione che Lei rappresenta, ma con altrettanta sincerità e determinazione. Ricordo bene il Suo intervento - devo dire, senza precedenti - dopo che furono eseguite le perquisizioni da parte dei magistrati di Salerno. Rimasi amareggiato, ma non meravigliato.


Signor Presidente, questo sistema malato mi ha di fatto strappato di dosso la toga che avevo indossato con amore profondo. E il fatto che non mi sia stato più consentito di esercitare il mestiere stupendo di Pubblico ministero mi ha spinto ad accettare un’avventura politica straordinaria. Un’azione inaccettabile come quella che ho subìto può strapparmi le amate funzioni, può spegnere il sogno professionale della mia vita, può allontanarmi dal mio lavoro, ma non può piegare la mia dignità, né ledere la mia schiena dritta, né scalfire il mio entusiasmo, né corrodere la mia passione e la volontà di fare qualcosa di utile per il mio Paese.


Nell’animo, nel cuore e nella mente, sarò sempre magistrato.


Nella Politica, quella con la P maiuscola, porterò gli stessi ideali con cui ho fatto il magistrato, accompagnato dalla medesima sete di giustizia, i miei ideali e valori di sempre (dai tempi della scuola) saranno il faro del nuovo percorso che ho intrapreso. Darò il mio contributo affinché i diritti e la giustizia possano affermarsi sempre di più e chi soffre possa utilizzarmi come strumento per far sentire la sua voce.


È per questo che, con grande serenità, mi dimetto dall’Ordine giudiziario, dal lavoro più bello che avrei potuto fare, nella consapevolezza che non mi sarebbe più consentito esercitarlo dopo il mandato politico. Lo faccio con un ulteriore impegno: quello di fare in modo che ciò che è successo a me non accada mai più a nessuno e che tanti giovani indossino la toga non con la mentalità burocratica e conformista magistralmente descritta da Piero Calamandrei nel secolo scorso, come vorrebbe il sistema di potere consolidato, ma con la Costituzione della Repubblica nel cuore e nella mente.


di Luigi De Magistris (Tratto da Il Fatto Quotidiano dell'1.10.2009)

giovedì 1 ottobre 2009

Cari colleghi, dove eravate?

L’imprevedibilità degli eventi, insuperabile limite umano.
Essa ha segnato il cammino della storia, aprendo ai grandi cambiamenti e alle conquiste di civiltà.


Nell’apparente quiete di un ancient regime ormai assai prossimo alla perfezione, l’imprevedibile è accaduto.
Una falla nel sistema. L’inaspettato logorìo dei meccanismi di controllo.
Meccanismi perversi, criminosi, grazie ai quali gruppi di potere trasversale hanno usurpato posti strategici all’interno delle istituzioni del Paese, generando un tentacolare sovra-apparato che ne plagia il funzionamento democratico per asservirlo al culto del dominio personale e del profitto.
Meccanismi spietati, dietro i quali sono celati i misteri delle innumerevoli stragi della nostra storia repubblicana, servite solo a instillare nel popolo suddito, atterrito e prostrato al bisogno, l’illusione di un governo stabile e forte, in grado di fronteggiare e sconfiggere l’ombra di un apparente nemico, di cui, in realtà, era già prigioniero.
Meccanismi di spionaggio e dossieraggio illegali, micidiali armamenti di un potere senza colore, invisibile e onnipresente, il vero grande Segreto di Stato; impiegati per ordire, con la clava della denigrazione, strategie di annientamento di uomini scomodi impegnati nella ricerca della verità, da seppellire, per sempre, nel sepolcro della grande menzogna.


Imprevedibilmente, quei meccanismi sono impazziti, il controllo è sfuggito di mano.
Dietro la patina scrostata di un mondo surreale, si intravedono, ridotti in macerie, gli antichi spazi di libertà, autonomia, eguaglianza sociale, ai quali i nostri padri hanno donato, nella lotta, le loro semplici vite.
Da ogni parte si levano cori di autorevoli voci; indignate, incitano a levare gli scudi, perché la democrazia è in grave pericolo.
Le forze politiche di opposizione organizzano proteste a difesa della Libera Stampa, l’associazione nazionale delle toghe invoca tutele alla sua indipendenza.


Dov’ erano costoro quando suonavano i primi campanelli d’allarme?
Dov’erano, quando scoppiavano i casi dei colleghi De Magistris e Forleo, impunemente additati come cattivi magistrati; quando, senza decenza, veniva profusa alla pubblica opinione l’enorme bugia della Guerra tra le Procure di Salerno e Catanzaro?
Dov’era allora la verità?
Eppure, l’evidenza dei fatti era scritta nelle carte, migliaia di atti processuali che raccontano dell’illecita gestione di finanziamenti e appalti, di corruzioni giudiziarie, di indagini avviate e poi sparite nel nulla, di agenzie di sicurezza e organi di informazione, di magistrati controllati, delegittimati, esautorati delle loro funzioni.
Dov’erano quei politici, quelle toghe, le illustri firme del giornalismo italiano che oggi gridano allo scandalo dell’autoritarismo?
La paura li aveva forse paralizzati, rendendoli ciechi, muti, sordi?
Non preferirono, allora, seguire le scorciatoie della denigrazione, degli insulti gratuiti o, ancor peggio, dell’indifferenza e del silenzio, tutti compatti nella irrazionale difesa di simulacri sacri ed inviolabili, da preservare ad ogni costo?
E dov’era la grande “libera stampa” quando si levavano, isolate, le coraggiose voci del dissenso?
Non si adeguò forse anch’essa - né più né meno della “stampa di regime” - ai diktat dell’oscuramento, della mistificazione, dell’omertà e dell’emarginazione, dimostrandosi suddita del proprio padrone?
Certo è che quella verità avrebbe consentito di svelare i meccanismi del sistema e di arrestarne il funzionamento. Troppo scomoda però, forse perché non partigiana.
Più facile e conveniente espellere i virus e ridurli in quarantena.


Dunque, il tempo delle domande - e delle riflessioni - non è ancora finito.
Sorge il dubbio che le nobili cause, rispolverate oggi con tanto fervore, siano utili a rinvigorire qua e là il consenso in un popolo stanco e stremato.
Intanto, l’imprevedibile può ancora accadere. Che taccia il chiacchiericcio volgare di chi, assai vigliaccamente, ancora getta acqua al suo mulino per giustificare le nefandezze compiute; che i fatti siano finalmente resi alla pubblica opinione; che le responsabilità siano accertate e punite.


La ricerca della verità accomuna Giustizia ed Informazione, ma non è una lucina debole e fioca, che si accende e si spegne all’intermittenza della ipocrisia e della convenienza politica.
E’ un faro immenso, luminosissimo, perennemente fisso sulla coscienza umana, unica vera guida verso un autentico rinnovamento.


di Gabriella Nuzzi (magistrato) - 30 settembre 2009 (tratto da “IL FATTO Quotidiano”)